Ecco, mi sembra ormai indubitabile che un certo linguaggio
poetico sia morto, e sento il bisogno di chiarire le ragioni di questa morte.
Due citazioni mi aiuteranno a cominciare:
“In giardino il ciliegio è fiorito
agli scoppi del nuovo sole,
il quartiere si è presto riempito
di neve di pioppi e di parole.
All’una in punto si sente il suono
acciottolante che fanno i piatti,
le tivù son un rombo di tuono
per l’indifferenza scostante dei gatti;
come vedi tutto è normale
in questa inutile sarabanda,
ma nell’intreccio di vita uguale
soffia il libeccio di una domanda,
punge il rovaio d’un dubbio eterno,
un formicaio di cose andate,
di chi aspetta sempre l’inverno
per desiderare una nuova estate.”
Da Lettera
di Francesco Guccini, 1996
“È quando s’è preso il pallone che ha cominciato a pensare di
scovare nell’«io» più profondo d’un talento sontuoso: perché l’idea, i geni,
sanno come andarla a scavare nel nulla (apparente). È stato un lampo accecante,
il tempo necessario per lasciar che il cervello trasmettesse al corpo e
lasciasse scivolare sin dentro ai muscoli quella sublime interpretazione di sé,
della fantasiosa, (pre)potente espressione di Gonzalo Higuain: che si è messo a
danzare, da sinistra verso destra, ha accarezzato la sfera, l’ha tenuta lontana
dai «nemici», lasciandoli fermi, inchiodati nell’erba, e poi, pum,
interno-collo, con parabola perfidamente deliziosa che accarezza la rete,
s’adagia all’incrocio e scatena gl’improbabili paragoni.”
Da
Napoli, è un Higuain mai visto: «Non voglio fermarmi», di Antonio Giordano,
Corriere dello Sport, 3 ottobre 2015
Ecco, il motivo per cui i poeti non possono più adottare un certo linguaggio nel loro fare poesia è
che questo linguaggio è ormai oggi diversamente utilizzato, è attualmente incaricato
di portare contributi di senso in altri domini d’uso (quotidiano o non
quotidiano, colto o non colto non ha importanza), come la musica leggera o il
giornalismo sportivo.
Ma perché non più adottabile dalla scrittura poetica? Una
spiegazione di quel che accade a seguito di queste nuove utilizzazioni la si individua
dall’analisi dell’operazione effettuata da Joyce quando scrive i capitoli dell’Ulisse servendosi di gerghi speciali
come il gergo legale, quello pubblicitario, quello cattolico, quello da
taverna, quello del romanzo storico, ecc.
Joyce usa questi gerghi togliendoli
dai propri contesti d’uso e portandoli
nella letteratura. In questo movimento dà luogo ad una attribuzione verso di
essi di nuovo senso letterario con effetti di parodia, per cui alla luce della
sua esperienza ogni successiva utilizzazione di quei linguaggi in ambito
letterario non può che essere parodica. In questo toglierli ed immetterli egli in
un certo senso li esaurisce, li
priva del proprio potenziale espressivo letterario. Tanto è vero che poi quel
che gli rimane, dopo Ulisse, è la
scelta forzata di reinvenzione di un nuovo linguaggio, un linguaggio
chiuso-aperto in un proprio universo di significanti e significati, un
linguaggio appunto della non comunicazione, quello di Finnegans Wake.
Quanto accaduto oggi ad un certo linguaggio poetico – quel
linguaggio che qui si vuole dichiarare morto – risente gli effetti di una
dinamica di acculturazione (forse perversa, forse inevitabile e necessaria) per
cui il linguaggio poetico e i significati propri di una certa poesia sono stati
acquisiti e sono divenuti materia di altri linguaggi (quello giornalistico, quello
della musica leggera, ma anche quello dei ricettari da cucina e dei social
media). Sono le pratiche in questi ambiti che, in questo caso, hanno portato dentro sé un certo linguaggio poetico privandolo per sempre del proprio potere di attribuzione di senso in quel
contesto d’uso, appunto, poetico. Usare oggi questi linguaggi e tenerli dentro
la poesia ha lo stesso effetto parodico ed umoristico della scrittura joiciana
di Ulisse, perché essi sono, a questo
punto, poeticamente esauriti. Il poeta
che continua ad adottare questi gerghi esauriti non si accorge di affidarsi ad
una lingua morta, in-significante nell’ambito dell’espressione poetica che si
vuole invece vera, altra, orientata all’espressione di una verità che si
colloca al di là della parola e del linguaggio stessi, che cerca proprio per
questo di utilizzare una parola-cosa,
una parola-non-linguaggio.
Ecco, è per ciò che il lavoro del poeta continua a dover essere un lavoro incessante e faticoso
di ricerca delle parole della
poesia, delle sue congiunzioni e della sua sintassi, in cui ogni vocabolo, ogni
legame sintattico-semantico, ogni snodo e configurazione formale è solo un’ipotesi,
un’ipotesi materica più che
un’ipotesi linguistica. Perché la poesia è ancora alla ricerca di una verità
delle cose dette che non si affida solo ai sensi e ai significati (come fa la
saggistica) ma anche a quella cosità
della parola di cui la poesia abbisogna e di cui essa si appropria – più di
qualsiasi altro linguaggio – nella sfera degli usi della lingua. Il poeta non può eludere questo lavoro di
ricerca, altrimenti fa saggistica, o narrazione – anche intimistica se si
vuole – di fatti propri o altrui.
Ecco, io sento il bisogno di dire che un certo
linguaggio poetico è morto, e non mi
basta affermare che è morto solo perché era vecchio: io sento il bisogno di chiarire perché è invecchiato e poi morto. Sento il bisogno di decretarne
per sempre la morte e, augurabilmente, la scomparsa.
Nessun commento:
Posta un commento